Carciofi sotto la cenere, un primo maggio nell’Agro romano.

Questa mattina l’aria è frizzante ma già tiepida. Mi hanno detto di aspettarli alle 9.30 sotto casa. Sono qui da mezz’ora. Ancora non ho preso la mano con gli orari romani, qui non esiste il quarto d’ora accademico, ma le mezz’ore circa, più o meno, un’ora di ritardo sull’orario concordato è tollerato, se non è addirittura la prassi. 

Per fortuna sono più puntuali del previsto, con soli 40 minuti di ritardo: eccoli. 

La strada che porta verso i colli non è così lunga come pensavo, forse perché grazie al raccordo la velocità di crociera è molto sostenuta. Ma appena usciamo dallo svincolo siamo fermi. In coda assieme a mezza Roma (l’altra mezza è tutta sulla Ostiense). Guardo l’orologio: le 11.00. 

Con un velocità che la lepre della storia di Esopo ci avrebbe invidiato, dopo 1 ora e mezza finalmente usciamo dall’ingordo ingorgo e prendiamo delle strade meno trafficate, verso uno dei colli. 

Saliamo dolcemente, qualche curva, poca pendenza. L’Agro romano ha un fascino antico. Le ville e le abitazioni che superiamo sono all’ombra dei grandi pini marittimi, che si stagliano su un cielo blu dalla luce unica. 

Seguo poco i discorsi in macchina, cerco di memorizzare il più possibile quel paesaggio, quella luce, le mie emozioni. Nonostante tutto mi sento a casa. Sono lontano centinaia di chilometri, in un mondo diverso dal mio per storia e pensiero, eppure, mi sento a casa. 

Finalmente arriviamo. Attraversiamo un grande cancello in ferro battuto, di quelli che ormai nessuno fa più, seguiamo il lungo viale protetto dalla volta dei pini. Scorgo sul prato una grande catasta di legna. Legna da potatura, credo. Tralci di vite e di ulivo. Allungo lo sguardo e in lontananza noto diversi alberi di ulivo e qualche filare di vigna. 

Francesco ci accoglie all’ingresso di casa con la sua solita non curanza e con il suo fare brusco. Poi scompare in casa. Essendo curioso per natura, mentre gli altri si dirigono verso la grande tavolata preparata sul prato di fronte a casa, io seguo Francesco fino nella buia cucina. Lo trovo chino sul grande bancone di marmo, tipico delle cucine che si trovano nelle case di una volta, davanti all’unica finestra. Intravedo un grande vassoio d’acciaio su cui sono disposte in bell’ordine una trentina di teste di carciofi, pulite. Francesco prende uno spicchio d’aglio e qualche foglia di mentuccia romana e le infila delicatamente nel mezzo di ogni testa. Le cosparge leggermente d’olio e le ricopre con la carta stagnola. 

Lo osservo con curiosità. Non ho mai visto preparare i carciofi in questo modo. 

Francesco prende il grande vassoio, mi indica con la testa alcune bottiglie di frascati già aperte sul tavolo e si avvia verso il giardino. 

Velocemente prendo le bottiglie e lo seguo, ormai la mia attenzione è attivata e la mia curiosità grandissima: non voglio perdermi neppure un gesto. 

In giardino Francesco supera la grande griglia di mattoni, sulla quale il fuoco sta’ piano piano lasciando il posto alle bronze, e si dirige verso la grande catasta di tralci che avevo notato appena arrivato. Lascio le bottiglie sulla tavola e lo seguo.

Da lontano non avevo visto che la catasta stava sopra ad un mucchio di cenere e bronze ancora accese. 

Francesco mi mette in mano il vassoio e prende la pala per spostare la cenere abbastanza da riuscire ad appoggiare il vassoio e lo ricopre, ponendoci sopra anche i tralci di vite e ulivo non ancora bruciati.

Resto lì in piedi osservando il lento movimento delle bronze, mentre gli altri si affaccendano alla griglia, sopra la quale, lo sento dal profumo, sono stati messi gli arrosticini, le salsicce e qualche fiorentina. Ecco che inizia la solita discussione su come e quanto si cuoce la fiorentina.

Io sono ipnotizzato da quei carciofi nascosti alla mia vista. 

Sento che qualcuno mi chiama. Vi avvio verso la tavola e mi siedo nel posto che mi è stato assegnato. Piatti pieni di bacelli di fave, taglieri con forme di pecorino, bottiglie di frascati, pane di Genzano si muovono su e giù attraverso la tavolata, come in una danza armoniosa.

Qualcuno si sta occupando della griglia e inizia a richiamare i vassoi per appoggiarvi la carne. C’è un chiacchericcio continuo, a tratti fastidioso, per lo più piacevole. 

Passano i vassoi con la carne. Vedo comparire nel mio piatto arrosticini, salsicce e pezzi di fiorentina. Ma la mia attenzione è sempre a quei carciofi.

Francesco si alza e, arrivato alla catasta, estrae il vassoio.

 Il mio cuore, o forse il mio stomaco, sobbalza.

L’attesa è finita. 

Sollevato il velo di carta stagnola, una nuvola di vapore si alza e porta alle narici il profumo acre della cenere, mescolato al dolce dell’aglio e al balsamico della mentuccia. La bocca si prepara ad accogliere un gusto inedito. 

Ma non è preparata alla meraviglia del primo boccone, che piano fa scendere una lacrima sul viso. La dolcezza del carciofo è esaltata dal calore della cenere, la leggera affumicatura dona una struttura a quella seria dolcezza, il tutto alleggerito dal brio della mentuccia.

Ecco, il carciofo, in tutta la sua grandiosità.

Roberta


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