Il potere evocativo dei sapori: “Sei di nuovo a casa” il racconto di Roberta Semec.

Una delle cose che più rimane impressa nella nostra memoria, che si trasforma in ricordi sono gli odori ed i sapori. È talmente forte il potere evocativo di ciò che gustiamo, che a volte è in grado di scatenare emozioni che necessitano di essere condivise.
Roberta Semec lo fa, a modo suo,in questo racconto.
Un giovane uomo torna nel sua città, tutto è cambiato tranne…

Sei di nuovo a casa di Roberta Semec

Cammino lentamente. Quasi potessi fermare il tempo. Non ho bisogno di correre né di guardare ciò che mi circonda.
Ho percorso quelle strade migliaia di volte.
Qualcosa sicuramente è cambiato.
Il negozio all’angolo che vendeva cravatte e fazzoletti da uomo ha tirato giù la saracinesca.
Definitivamente. Non ricordo neppure quando.
Il negozio in cui la nonna comprava le caramelle alla menta forte, rigorosamente sfuse, è diventato una pasticceria.

Anche le persone che incontro sono volti nuovi. Sconosciuti.
Eppure non mi importa.
Sento che questa è casa mia. Estranea quanto basta per sorprendermi. Familiare quanto serve per accogliermi e proteggermi.
Osservo i miei piedi muoversi attraverso le strade e i vicoli, leggeri, come in nessun’altra parte del mondo.
Quanto ho agognato tornare. Quanto avevo desiderato partire. Anni prima. Giovane e ingenuo.
Credevo di trovare altrove ciò che non sapevo cogliere qui.
Non volevo fermarmi. Credevo di poter vivere in qualsiasi parte del mondo. Restando comunque me stesso.
Illuso e pieno di boria.

Ogni luogo in cui vivi ti trasforma. Ti rende simile a sé. Così, piano piano, negli anni, mi sono trasformato in ciò che più odiavo: un provinciale, pieno di illusioni e di preconcetti, cieco e spaventato dalla diversità.

Io, cresciuto qui, in mezzo alla mia Europa.
Dove camminando puoi ritrovarti a Vienna.

Pochi passi più in là ed ecco che sei ad Atene – Kalimera! – .

Puoi pranzare in Serbia e ritrovarti a cenare ad Istanbul.
Al mattino passeggi guardando il mare, la sera respiri l’aria delle Dolomiti. La sera vai a dormire in Occidente, al mattino ti svegli in Oriente.
Sono stato infantile e sciocco a rinchiudermi in ciò che credevo il Mondo.
Ci sono nato nel Mondo.
Dove chiunque ha una storia meravigliosa e incredibile da raccontare sulle proprie origini.
Cresciuti a pane e multiculturalità, quando questa non era di moda.
Ma ci chiamavano provinciali, ed io mi vergognavo. Pensavo avessero ragione.

Fumo. Fumo negli occhi.

Io, figlio di una piccola città di confine, spesso emarginata e sconosciuta.
Loro, figli del Mondo, tronfi del loro status, cresciuti a pane e vanità per un passato che neppure loro conoscevano pienamente e consapevolmente.
Mi sentivo piccolo ed inadeguato.
Mi fermo. Respirando piano. Delicatamente assaporo i profumi della mia memoria.
Decido che i miei piedi devono seguire il filo dei miei pensieri e dei miei ricordi.
Rimango lì. In attesa dell’impulso giusto.
Del ricordo capace di riappacificarmi con il mio mondo.
Ne vedo passare uno.
Avrò avuto due o tre anni, camminavo svelto per tenere il passo con mia madre. Doveva essere un sabato pomeriggio. Andavamo al caffè. Lei aveva una giacca blu, taglio maschile, i capelli corti e lo sguardo triste. Io un paio di scarpe blu ed un maglione rosso. Avevo gli occhi lucidi, di chi ha appena pianto.

Sembriamo infelice, eppure, in qualche strano modo, so che eravamo felici.
Eccone un altro. Lo seguo.

Questa volta è mia nonna. È giovane, ed io avrò sei, forse sette anni. Vedo i suoi occhi grigi e malinconici, il suo rossetto. Si siede ad un tavolino con le sue amiche, io gioco davanti a loro, ad una certa distanza.

È uno dei momenti bui della mia vita, ma ne sono inconsapevole. Sorrido.
Lascio andare qualche altro ricordo, senza seguirlo da vicino: i miei amici d’infanzia, le corse, le rincorse. Tutto perso. In un infinito oblio.
Ecco, mia madre e mia nonna sedute al caffè. Prendono il sole in una giornata autunnale. Di quelle ancora tiepide. Con il retrogusto d’estate. Chiacchierano. Chiudono gli occhi. Assaporano il tepore. Deve essere mattina. Sicuramente sarò stato a scuola.
Le lascio al loro momento e torno a cercare.
Eccomi. Cammino sicuro, stretto nel mio giaccone inglese blu, con il bavero alzato, il vento che mi scompiglia i capelli e mi fa stringere le spalle, nella speranza di sentire meno freddo. Sono in anticipo e potrò godermi il caffè del mattino con calma, prima di entrare a scuola.

Ho scoperto che posso prendermi questo momento solo per me, nell’assoluta solitudine di un caffè.
Nell’immensa confusione dei miei pensieri.
Abbandono anche questo ricordo. Il filo mi porta ad andare avanti nella ricerca. Tutto ciò mi appartiene e io appartengo a questo. Ma non è ciò che mi serve per riappropriarmi della mia realtà.
Mi vedo. Camicia azzurra e jeans. Scarpe da barca. Sono leggermente abbronzato. Primi anni di università. Caffè e aperitivi in centro. Un giro nella libreria di alcuni amici. La ricerca di qualche libro di nicchia. Un film di ricerca. Un documentario. La ricerca di una mia identità.
La costruzione di un carattere, che si sta sempre più definendo.

Mi seguo. C’è qualcosa in questo Me che sento mi manca.
Eccomi dentro la libreria. Osservo gli scaffali con una certa attenzione. Dietro gli occhiali dalla grossa montatura scura, stringo gli occhi, come a cercare di focalizzare meglio il titolo che sto cercando.

Accanto alla libreria c’è un piccolo caffè. Non che la cosa sia tanto insolita. La mia città ha fatto la sua fortuna artistica ed economica sui suoi caffè.

Ma stando lì a cercare i libri, puoi sentire il profumo del caffè tostato e macinato. Quell’aroma pieno e corposo che ti riscalda il cuore e l’anima.
Continuo a cercare il libro. Le mie dita scorrono sulle coste ben allineate, frenetiche, poi indulgenti, a tratti piene di dubbi.
Ecco, il libro che cercavo.
Probabilmente in qualsiasi altra libreria al mondo l’avrei trovato nella sezione “Viaggi”. Ma qui, in questa piccola libreria, nel mezzo di una città dimenticata, nel centro di un’Europa ormai sconosciuta, è posizionato sotto il nome dell’autore nella sezione “Saggi”.
Pago il mio acquisto. Alla cassa una ragazza che non conosco. Potrei chiedere del proprietario, un tempo eravamo amici, ma mi sentirei a disagio.
Prendo il mio libro. Esco. Sento il vento iniziare a soffiare con una certa irruenza. Niente di speciale. Egli è parte di questa città. Egli è parte di me.
Mi avvio camminando lentamente. Non ho una meta precisa. Il libro stretto in mano. E’ la mia mappa personale. Ciò che mi condurrà al mio

Io, quello che ho perso, un giorno, andandomene da qui.
So che esiste. So che esiste ancora, qui in qualche via, dietro qualche angolo.
Ne ho un disperato bisogno. Forse lui non ne ha di me, ma io di lui sì.

Quante volte, in questi lunghi e nostalgici anni, l’ho cercato. Mi sedevo in un caffè, che mi ricordasse casa. Il profumo e l’aroma della tostatura mi attraevano come il canto delle sirene attraevano Ulisse, ma come con le sirene, la mia era solo un’illusione.

Mi infrangevo sul bordo della tazzina, con l’immagine del sapore di quell’ultimo caffè preso prima di partire, rimanendo inevitabilmente deluso e promettendo a me stesso di non riprovarci più, per non dover sentire nuovamente il dolore del distacco, la solitudine della distanza, l’amarezza dell’errore.
Ma poi, con una cocciutaggine direi assolutamente infantile, ci riprovavo, e il dolore diventava più forte ad ogni tazzina, ad ogni bicchiere, ad ogni sorso di caffè.
La mia ricerca per le strade continua. Seguo il mio Io ventenne. Riconosco luoghi, ne comprendo i cambiamenti, necessari all’evoluzione, eppure intrinsecamente legati alla storia.

Cambiamenti che via via riconosco e che riconosco anche in me.
Sono passati quindici anni. Non sono più il ragazzo con mille sogni nel cassetto, nessuna responsabilità, che voleva evitare i conflitti e preferiva stordirsi di chiacchiere piuttosto che rintanarsi in una solitudine silenziosa e riflessiva.
Ho sempre un sacco di sogni nel cassetto, ma ora so qual è la mia direzione. Ho imparato che la solitudine non fa paura, anzi, ti permette di apprezzare di più la compagnia, quella vera.
Ho imparato a farmi il caffè. Ad assaporare i silenzi che porta con sé alzarsi presto la mattina e il piacere di berlo in compagnia dei propri pensieri.

Ho imparato che se sono triste, malinconico o mi sento solo, posso prepararmi un caffè, leggere un libro mentre attendo il confortante borbottio della caffettiera, ascoltare un brano che mi emozioni.
Ho vissuto talmente tanta malinconia da ritenerla un’amica e non una nemica da combattere.
La chiamo, le offro un caffè e mi riconcilio con ciò che mi circonda.
Anche adesso, inseguendomi, capisco che ho bisogno di lei, perché anche lei fa parte di questo mio mondo.
Mi fermo.
La chiamo. Le basta poco per arrivare.

Allora entriamo dentro al caffè vicino alla libreria.
Ci sediamo ad un tavolino un po’ nascosto.
Appoggio il libro sul tavolo.
Ordino – Un gocciato, per favore. –
Distrattamente sfoglio il libro, facendo scorrere le dita veloci tra le pagine. Cerco un punto. Una frase. Un pensiero.
Il significato di appartenere a questa città. All’essere “provinciale” nella definizione dei veri “provinciali”, all’essere conscio del mio passato e del mio presente, al vivere la vita aperto al nuovo.

Negli ultimi quindici anni mi sono rinchiuso. Ho vissuto come chi mi disprezzava, solo per potermi integrare.
Ho evitato i conflitti.
Arriva il mio caffè.
Il cucchiaino gira lentamente.

Ecco.
Mi ha trovato. Mi sorride. Fa un cenno con la mano. Si avvicina.
Si siede accanto a me. Mi abbraccia. – Sei di nuovo a casa. –
Mi guardo. Non vedo più il mio Io ventenne. Ora vedo il mio Presente.
Avvicino le mie labbra alla tazzina.

Bentornato.
Sei di nuovo a casa.

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